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Pierre de Coubertin: un uomo e il suo sogno




La crescita e l’affermazione dello sport nel Novecento si deve all’opera costante e lungimirante di molti personaggi, ma, per unanime riconoscimento, fu il francese Pierre de Coubertin il principale artefice di questo sviluppo. 

Terzo di quattro figli di un pittore e una nobildonna di origini normanne, si applicò con ardore nello studio, e nonostante provenisse da una famiglia aristocratica, sviluppò una forte ribellione nei confronti delle ineguaglianze di classe, contro la povertà dei ceti bassi e la carenza d’istruzione. Osservando la società della seconda metà dell’Ottocento, egli si convinse che due grandi trasformazioni erano in atto: la nascita in molti paesi della scuola dell’obbligo e lo sviluppo di nuovi mezzi di trasporto e comunicazione. Due aspetti che avrebbero trasformato e «internazionalizzato» il mondo civile. 
 
Rimproverando alla classe intellettuale francese di «sedere troppo spesso sul proprio cervello, trascurando il fisico», de Coubertin cercò di costruire una propria teoria relativa all’educazione fisica, restando incredibilmente affascinato dalle teorie di Thomas Arnold, direttore della celebre scuola di Rugby; leggendo il celebre romanzo Gli anni di scuola di Tom Brown (1857) di Thomas Hughes, un allievo di Arnold, de Coubertin si commosse scoprendo la comprensione generosa e affettuosa che il professore inglese aveva dimostrato verso i suoi allievi, e fu avvinto dai racconti dei giochi e delle attività sportive che coinvolgevano quei ragazzi. Il barone francese si rese presto conto, con eccezionale intuizione, che lo sport, la ricreazione fisica e la ginnastica nelle scuole potevano costituire uno strumento potente per accelerare la democratizzazione e instaurare rapporti più civili tra le nazioni.

A questi concetti de Coubertin collegò quanto aveva appreso dai suoi studi sull’antica Grecia sui Giochi di Olimpia: immenso era il fascino che le antiche Olimpiadi, che ogni quattro anni chiamavano le città-stato elleniche non solo all’agone atletico ma anche alla celebrazione – al di sopra dei contrasti politici – della loro unità culturale, esercitavano su de Coubertin. Tra il 1875 e il 1881 una spedizione tedesca diretta da Ernst Curtius aveva riportato alla luce i resti di Olimpia, la mitica cittadina degli agoni Greci; a partire dal 1889, all’età 26 anni, de Coubertin cominciò a sognare di poter trasporre le antiche usanze nei tempi moderni. La sua posizione sociale e la sua fervida dialettica, gli permisero di entrare in contatto con eminenti figure della cultura e dello sport contemporaneo e presto il barone cominciò a darsi da fare attraverso la riorganizzata Union des Sociétés françaises de sports athlétiques (USFSA).
 
Superate le iniziali difficoltà e resistenze, dal 16 al 24 giugno 1894 si tenne alla Sorbona un congresso composto da 79 delegati in rappresentanza di 14 nazioni e 49 società sportive, alla presenza di un folto uditorio; fu fondato il CIO, uno speciale comitato (di cui de Coubertin si riservò il ruolo di segretario), che il 23 giugno 1894 decretò che i Giochi Olimpici sarebbero tornati a vivere. Il CIO decise che l’edizione inaugurale dei Giochi, fissata in Grecia in coincidenza con le festività di Pasqua (greca e occidentale) si sarebbe svolta nei giorni dal 5 al 15 aprile 1896; il compito più gravoso fu la ricostruzione del vecchio e grande stadio Panallenico di Atene. In aiuto del comitato venne il contributo di 130.000 dracme da parte del ricchissimo greco Georgios Averoff. L’opera fu compiuta giusto in tempo, anche se la struttura della pista e il pessimo fondo scontentò gli atleti inglesi e americani. Ai primi Giochi dell’era moderna parteciparono 13 paesi del mondo; 9 gli sport contemplati.
 
De Coubertin auspicò costantemente che i Giochi moderni fossero animati da una devozione mistica e da un grande ideale, come in Olimpia 2500 anni prima. Egli voleva che i che i Giochi fossero una gara di forza e abilità atletica, ma anche di bellezza e di cultura, come nell’antichità, e infine una celebrazione dell’amicizia tra le nazioni del mondo. Per questo il barone sostenne l’alternanza dei paesi nel compito di organizzare le successive Olimpiadi, osteggiando la volontà dei greci, gelosi di quella che consideravano «una loro creatura». Il complesso pensiero di de Coubertin, che ci è giunto attraverso i suoi numerosi scritti, è ancora oggi modernissimo, nonostante la proverbiale misoginia che lo caratterizzava e che lo portò sempre ad osteggiare la presenza di atlete ai Giochi. Il barone considerò lo sport come modello di democrazia sociale, e sperò sempre che frenesia e ricchezza non lo travolgessero; ciò nonostante non fu necessariamente nemico del professionismo, pur deprecandone gli eccessi e i divismi («mi sembra infantile condannare uno sportivo che ricavi dalle sue fatiche un pezzo da cento soldi»), al contrario degli Inglesi che imposero al CIO sin dalla prima edizione, il divieto di partecipazione ai Giochi da parte di sportivi non dilettanti. De Coubertin esaltò infine la componente spirituale dell’attività fisica: lo sportivo si allontanava da menzogna e sfiducia, ricevendo in cambio gli stimoli e gli obiettivi indispensabili per vivere correttamente. Del barone molti ricordano il motto «l’importante è partecipare, non vincere»; in realtà a pronunciare questa frase fu il vescovo anglicano di Pennsylvania, durante una cerimonia di saluto ai partecipanti ai Giochi di Londra 1908, il 24 giugno, nella cattedrale di Saint Paul. De Coubertin si limitò a riportarla (citando la fonte) nel corso di un banchetto qualche giorno dopo.
 
Nel 1925, a 62 anni, dopo aver coordinato sette Olimpiadi e aver visto la nascita dei primi Giochi Olimpici invernali, disputati l’anno precedente a Chamonix, de Coubertin sentì il bisogno di ritirarsi dall’attività del CIO; fu eletto Presidente onorario a vita e gli successe il conte belga Henri de Baillet-Latour. Dedicò gli ultimi anni della sua esistenza agli studi, in particolare a quelli di pedagogia sportiva. Fu proposto come candidato al premio Nobel per la pace, ma l’iniziativa non ebbe seguito a causa del suo decesso, avvenuto il 2 settembre 1937 a Ginevra. In vita il barone dette prova di saper collegare sogni e realtà storica e grazie alla sua costante mediazione il CIO poté aggirare i tanti ostacoli relativi all’organizzazione delle varie edizioni dei Giochi. Come da suo desiderio, il suo cuore fu sepolto ad Olimpia. Con lui è nato lo sport moderno.

Il sogno di De Coubertin

Nell’anno 393 d.C., l’anno in cui l’imperatore Teodosio I decretò la soppressione dei Giochi olimpici pervenuti alla loro CCXCIII edizione. Con tale decisione, il sovrano accoglieva una richiesta di Ambrogio vescovo di Milano, ma soprattutto ribadiva un preciso indirizzo politico della propria opera di governo: l’inammissibilità di qualsiasi retaggio dell’era pagana in un impero ormai reso cristiano. Del resto, il declino dei Giochi aveva avuto inizio già da tempo, ossia con la sottomissione della Grecia ai Romani (146 a.C); questi in effetti vi presero parte, ma non ne rispettarono lo spirito religioso e i nobili ideali cui erano improntati fin dalle loro remote origini (776 a.C). Poco dopo l’editto di Teodosio I, Olimpia, la città-santuario, veniva conquistata dai Goti, e nel 426 l’imperatore Teodosio II ne faceva dare alle fiamme il tempio di Zeus, non lontano dal quale sorgevano le costruzioni che avevano ospitato le competizioni sportive; infine, la città spariva definitivamente sotto le scosse del terremoto che, seguito dall’inondazione, la colpì per due volte, nel 522 e nel 551.
 
I tentativi di recuperare l’antica tradizione dei Giochi si radicano nel clima di rinnovata attenzione per la Grecia classica, che caratterizza la cultura europea a partire dal XVIII secolo. È all’inizio di questo secolo, infatti, che il monaco francese Bernard de Montfaucon individua il sito dell’antica Olimpia; l’idea di portarne alla luce le vestigia viene accarezzata dall’archeologo tedesco Johann Joachim Winckelmann e dall’archeologo inglese Spencer Stanhope; ma occorre attendere il 1875 perché il tedesco Ernst Curtius effettui i primi scavi dai quali emergono, carichi di tutto il loro significato, i resti della città.
 
Se la riscoperta delle vestigia è stata vittoriosa, quella degli ideali di cui esse si ammantano ha percorso, nel frattempo, un cammino tutt’altro che agevole. I «Giochi Scandinavi» (del 1834 e del 1836) e il successivo «Festival olimpico», in Inghilterra, sono alcuni degli appassionati tentativi volti al recupero degli antichi Giochi, ma non coronati dal successo. Destinato a non avere un seguito è anche il «Concorso Olimpico» creato ad Atene nel 1859 (e riproposto soltanto una volta, nell’edizione del 1870) dal mecenate greco Evangelos Zappas (foto a sinistra). In Francia, l’idea si fa strada ad opera di Philippe Daryl, giornalista, uomo politico e fondatore della Lega nazionale dell’Educazione fisica; ma è al barone Pierre de Coubertin (Parigi, 1863 – Ginevra, 1937) che va il merito di aver tradotto quest’idea in un evento concreto e duraturo. 

Allievo dell’accademia militare francese di Saint-Cyr, dalla quale assorbì il senso della disciplina e un forte rigore morale, il giovane de Coubertin, nonostante il suo fisico minuto, era un appassionato sportivo: praticava infatti con entusiasmo canottaggio, ginnastica, corsa ed equitazione. Questa condotta di vita, unita a una spiccata propensione per l’uguaglianza sociale, portò il barone a maturare l’ardente convinzione che animò tutta la sua esistenza: lo sport poteva e doveva costituire un formidabile strumento di aggregazione contro le ingiustizie sociali e di fratellanza tra le nazioni. 
 
Attraverso le competizioni sportive internazionali, gli uomini – di ogni censo e nazionalità – si sarebbero identificati e riconosciuti in un interesse comune, più forte delle divisioni politiche, etniche o sociali.
 
Il 25 novembre 1892, alla Sorbona, nel corso del quinto anniversario dell’USFSA (l’«Unione delle Società Francesi degli Sport Atletici», di cui era segretario generale), de Coubertin annunciò per la prima volta il progetto di ricreare i Giochi olimpici, il più puro modello di sport internazionale, condannato da troppi secoli ad un oblio inglorioso. La perplessità dell’auditorio non lo scoraggiò. Per dar vita e consensi al suo progetto, moltiplicò i contatti con i paesi europei e con gli Stati Uniti; si scontrò con l’opposizione di numerosi capi di stato e di molti organi di informazione, e per di più dovette vincere l’indifferenza e la pigrizia mentale di buona parte dell’opinione pubblica. Finalmente, nel giugno del 1894, a conclusione del «Congresso internazionale di educazione fisica», che de Coubertin aveva ribattezzato «Congresso per la restaurazione dei Giochi olimpici», egli proclamò la fondazione del primo Comitato Internazionale Olimpico (CIO) alla presenza di 12 paesi. De Coubertin sarebbe rimasto presidente del comitato fino al 1925.
 
Il 5 aprile 1896, ad Atene, alla presenza di 50.000 spettatori (fra cui il re di Grecia, Giorgio I), si presentarono 245 partecipanti, in rappresentanza di 14 Paesi, per disputare 43 prove (lotta, sollevamento pesi, ginnastica, nuoto, tiro, ciclismo, scherma). L’indomani aveva ufficialmente inizio la prima Olimpiade dell’era moderna. Il sogno si era dunque avverato, anche se le difficoltà non erano finite...
 
Riuscito a superare l’opposizione della Grecia, che dopo il successo ottenuto dalla prima Olimpiade aspirava a divenire l’unica sede permanente dei Giochi, de Coubertin ottenne che la successiva edizione avesse luogo a Parigi (1900); ma l’evento, associato per ragioni economiche all’Esposizione Universale, si concluse in un fiasco (le competizioni, disseminate nell’intera regione parigina, si erano protratte per mesi). Vincitori delle prime due edizioni, gli Stati Uniti organizzarono quella del 1904 sul suolo americano; ma la lontananza di Saint Louis (dove per giunta si svolgeva un’altra Esposizione Universale) restrinse il numero dei paesi partecipanti a 13 (contro i 19 dell’edizione di Parigi), anche se quello delle gare salì a ben 390.
 
I Giochi divennero una manifestazione internazionale autonoma a partire dall’edizione di Stoccolma (1912); ciò non significa che da quella data in poi non vi siano stati cambiamenti di rotta e significative innovazioni. Basti pensare che le donne, escluse dalle prime Olimpiadi dell’era moderna e tollerate in quelle seguenti, hanno avuto la possibilità di parteciparvi ufficialmente soltanto nel 1928 (Amsterdam), e contro la volontà dello stesso de Coubertin. Dai 245 atleti partecipanti alle Olimpiadi di Atene (1896) si è passati agli oltre 9000 di quelle di Barcellona (1992), agli oltre 10.000 di quelle di Atlanta (1996) e agli oltre 9000 di quelle di Sydney (2000). Di questi ultimi, soltanto un terzo erano donne. Anche l’affermazione dei Giochi olimpici invernali è stata problematica, soprattutto per l’ostilità dei Paesi nordici, sostenuti dal barone. Il titolo ufficiale di primi Giochi olimpici invernali è stato dato a posteriori a quella che in effetti fu soltanto la «Settimana internazionale» di Chamonix, del 1924: è da notare che lo sci alpino, sport invernale per eccellenza dei Giochi invernali attuali, non vi figurava ancora; ne avrebbe fatto parte dal 1936.
 
Al 1913 risalgono l’adozione del motto olimpico proposto da de Coubertin, ma creato dal religioso Henri Didon («Citius, altius, fortius», «Più veloce, più alto, più forte», nella foto l'ingresso dell'Olympia Stadion di Amsterdam), e la scelta dell’emblema olimpico: gli anelli intrecciati (blu, giallo, nero, verde e rosso) a simboleggiare l’unione dei cinque continenti. Del 1920 è la prima lettura del giuramento olimpico, che ha luogo tuttora, ad opera di un atleta, nel corso della cerimonia d’apertura: «A nome di tutti i concorrenti, prometto che prenderemo parte a questi Giochi olimpici nel rispetto e nell’accettazione delle regole che li governano, dedicandoci a uno sport senza doping né droghe, nel più autentico spirito della sportività, per la gloria dello sport e l’onore delle nostre squadre». Inutile dire che nella versione originaria, la frase «uno sport senza doping né droghe» non figurava: si tratta di un’aggiunta significativa cui è stata data voce per la prima volta nella passata edizione di Sydney. E, a proposito di prima volta, quella del rituale della fiamma è del 1936 (Berlino); a partire dal 1964 (Tokyo), il fuoco che arde sul luogo dei Giochi proviene da quello acceso tra le vestigia del tempio di Era a Olimpia; va da sé che le modalità di questo insolito trasporto dipendono dai luoghi e dalle distanze.

 
Nel 1925, de Coubertin si ritirava dal CIO per dedicarsi alla pedagogia, a quella cioè che amava chiamare la sua «sinfonia incompiuta». Forse non tutti sanno che, nel 1920, i suoi indiscutibili meriti in ambito sportivo e sociale (fu un esperto di riforme in favore delle condizioni di vita delle classi popolari, e dell’istruzione in particolare, e lottò per il riscatto dei diseredati) gli avevano valso il conferimento del Premio Nobel per la pace; però tutti gli attribuiscono quell’«Importante non è vincere, ma partecipare» che egli in realtà non pronunciò mai: pare che la frase sia stata rivolta da un pastore anglicano ai partecipanti ai Giochi di Londra (1908), durante una cerimonia di saluto. De Coubertin era invece convinto che l’agonismo dovesse far primeggiare le qualità individuali, anche se questo non gli impedì di concepire lo sport come una pratica leale, corretta, svincolata da interessi economici e politici.
 
Il 2 settembre del 1937, durante una passeggiata in un parco di Ginevra, il barone morì per una crisi cardiaca. Come egli stesso aveva stabilito, il suo corpo riposa a Losanna, la città che poco tempo prima della scomparsa lo aveva eletto cittadino onorario, mentre il suo cuore – e non poteva non essere così – è sepolto a Olimpia.

 

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