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Mirsada, la ragazza che sfrecciava per le vie di Sarajevo


La sera del 31 luglio del 1992 il caldo si fa sentire, a Barcellona: si accanisce sugli spettatori assiepati sugli spalti e sugli atleti impegnati nello stadio del Montjuïc, teatro, sei giorni prima, della cerimonia inaugurale della XXV edizione dei Giochi Olimpici.

E, soprattutto, l’afa non dà tregua alle atlete alla linea di partenza della terza batteria eliminatoria dei 3000 metri. A dare il via alla gara è, come di consueto, lo sparo dello starter. Una partecipante in particolare sussulta al colpo di pistola: è la ventiduenne bosniaca Mirsada Burić, particolarmente sensibile agli spari. La sua avventura olimpica dura appena una decina di minuti: si piazza ultima nella sua batteria e ogni velleità di passare al turno successivo evapora inesorabilmente.

Fa registrare il tempo di 10’03”34: la vincitrice della batteria, l’irlandese Sonia O’Sullivan, copre la distanza in 8’50”08. Per Mirsada non c’è alcun rimpianto: il suo miglior tempo, il suo personale, è di 9’22”, per cui già in partenza sapeva di non avere alcuna chance di qualificarsi per la finale. Per lei è già un successo essere presente all’Olimpiade.

È una ragazza di Sarajevo, atleta e studentessa di Scienze politiche, e la capitale bosniaca da quattro mesi è sottoposta a un terribile assedio che mette a dura prova la vita dei suoi abitanti, giovani e anziani, donne e bambini, tutti, senza distinzione.

A non farne mai, di distinzioni, sono proprio le guerre. E non fa eccezione alla regola il conflitto scoppiato l’anno prima fra Bosnia e Serbia, con la prima desiderosa di rendersi Stato autonomo, la seconda fermamente intenzionata a soffocare le velleità indipendentistiche suscitate dal disgregamento dell’ex Jugoslavia.

Se Sarajevo si era fatta conoscere dal mondo per i Giochi Olimpici Invernali che aveva ospitato nel 1984, otto anni più tardi divenne tristemente famosa per l’assedio cui fu sottoposta dall’aprile del 1992 al febbraio del 1996: quattro lunghissimi anni durante i quali le colline che sovrastano la città furono occupate dalle truppe serbe.

La vita degli abitanti della capitale bosniaca, in quel lungo periodo e in modo particolare all’inizio dell’assedio, fu scandita dal tiro di artiglieria e dagli spari dei cecchini. Sono ancora negli occhi di tutti noi le corse di uomini, donne e bambini che cercano di mettersi in salvo per strada, tentando di schivare i colpi di fucile e di mortaio provenienti dalle alture intorno alla città.

Gli abitanti di Sarajevo non vogliono darsi per vinti: nonostante tutto, continuano a studiare, a suonare, a lavorare, a spostarsi di zona in zona, ben consapevoli che quel tratto di strada che devono percorrere, quel pur breve spostamento che consente loro di raggiungere una persona da assistere o di provvedere alla spesa, potrebbe essere fatale.

E non si fermano neanche gli sportivi. È la scelta di Mirsada, alla quale pochi mesi prima dell’Olimpiade di Barcellona, con l’inizio dell’assedio che attanaglia la sua città, sembra crollare il mondo addosso.

Ma non solo perché non può praticare sport, le motivazioni sono ben più gravi. Se in aprile, quando tutto ha inizio, il problema maggiore è quello della sospensione della corrente elettrica, a maggio la situazione precipita.

Assieme a quaranta persone Mirsada si consegna ai guerriglieri cetnici, serbi ultranazionalisti, e per tredici giorni finisce in prigione con quasi nulla da mangiare e da bere, con una fetta di pane e una tazza di tè a rappresentare la razione giornaliera. Dopo due settimane viene rilasciata, ma le rimane un’ossessione in testa, maturata durante la prigionia: non perdere l’appuntamento con l’Olimpiade. Riprende ad allenarsi e intensifica le sedute in maggio e giugno.

In un primo momento, elabora un percorso in un parco della città, ma lo varia dopo essere scampata per miracolo, un giorno, allo sparo di un cecchino. Attraversa ogni volta strade diverse, scelte al mattino, casualmente, per ridurre al minimo le probabilità di essere presa di mira. Dopo ogni seduta di allenamento, si affretta a telefonare al Comitato olimpico per far sapere di essere ancora viva.

Mirsada diventa un personaggio, un simbolo della resistenza di Sarajevo: la si vede correre per le vie della città indossando una maglietta con una stampa raffigurante Topolino. E la partenza da Sarajevo per raggiungere Barcellona è anch’essa un’odissea. Il 25 luglio di trent’anni fa, però, è allo stadio del Montjuïc con uno sparuto numero di compagni e compagne a rappresentare la Bosnia alla cerimonia inaugurale dell’Olimpiade.

Con il suo inconfondibile caschetto biondo alza indice e medio in segno di vittoria, e, con il suo sorriso, sembra rivolgersi a ciascuno spettatore seduto sugli spalti, quasi incredula di essere sopravvissuta alla tragedia della guerra. La vita e lo sport hanno avuto la meglio.

Luca Condini

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