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Materiale Didattico

Doping e vittime di doping


 


Secondo la legge del 14 dicembre 2000, n. 376, «costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmalogicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche e idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atileti». Il termine doping ha un’origine inglese a sua volta derivato dall’idioma dei cafri dell’Africa sudorientale, che con il termine
dop, indicano un liquore stimolante usato nelle cerimonie religiose; secondo alcuni proviene dal fiammingo doop, che significa mistura, miscela, poltiglia.

 
 

Nel mondo dello sport il doping consiste in sintesi nell’assunzione illegale di farmaci o droghe allo scopo di migliorare le prestazioni atletiche in vista o in occasione di una competizione agonistica. Tale pratica esiste purtroppo fin dai tempi antichi: gli atleti greci utilizzavano una dieta a base di carni associata a sostanze stimolanti; al tempo dei romani venivano drogavano i cavalli, utilizzati nelle arene, così come i gladiatori, per aumentare la loro aggressività; i popoli orientali, sudamericani e vichinghi assumevano sostanze per contrastare la fatica.

 

Nel corso del XX secolo lo sport ha gradualmente riscoperto antichi valori e un rinnovato agonismo: in paesi come Germania dell’est e Romania la scienza del doping e dei primati costruiti in laboratorio ha cominciato, a svilupparsi in maniera preoccupante. I primi controlli scientifici sono stati effettuati sui cavalli dal chimico Bukowsky a Vienna nel 1910, mentre i paesi occidentali, per fronteggiare le continue vittorie degli atleti dell’est Europa, investirono notevoli risorse economiche: per migliorare le prestazioni degli atleti venivano assegnati notevoli premi in denaro al fronte di vittorie o primati a livello internazionale.

 

Alle Olimpiadi del 1952, per la prima volta, venne ipotizzato che alcuni atleti avessero fatto ricorso a sostanze stupefacenti; con la diffusione a larga scala degli anabolizzanti la pratica del doping conobbe un altro preoccupante aumento due anni dopo, nel 1954. Nel corso dell’Olimpiade del 1964, disputata a Tokio, furono introdotti i primi controlli antidoping e nel 1965 la Francia per prima legiferò in materia. In Italia, nel 1961, venne aperto il primo laboratorio di analisi a Firenze, mentre nel 1971 fu emanata una legge che puniva l’uso di sostanze illecite agli atleti, condannando anche chi le fornisce. Con la legge n.522 del 1995, l’Italia ha poi ratificato la convenzione contro il doping siglata a Strasburgo nel 1989 dal Consiglio d’Europa; nel 2000, infine, è stata introdotta larilevanza penale e l’istituzione di una commissione di controllo.

 
 

Classificazione delle sostanze dopanti

 

- Anabolizzanti. Costituiti principalmente dagli steroidi anabolizzanti, sono sostanze sintetiche artificali e chimiche che si comportano come il testosterone (ormone maschile): sono utilizzati per migliorare la potenza attraverso un incremento della massa muscolare e una diminuzione della massa grassa. Una prolungata assunzione di questi farmaci causa impotenza sessuale, squilibri ormonali, fragilità dei tendini e formazioni di infarti, trombi, tumori e depressione. Uno dei più noti steroidi anabolizzanti è il nandrolone, ormone che determina l’aumento della massa muscolare: un atleta viene considerato "positivo" quando il valore di concentrazione riscontrato nelle urine supera i due nanogrammi (un nanogramma = un miliardesimo di grammo).

 

- Stimolanti. Questo gruppo è costituito essenzialmente dalle anfetamine e derivati, e dalla cocaina, caffeina e l’efedrina. Permettono di sopportare meglio lo sforzo fisico, riducendo appetito e fatica: in questo modo però l’atleta tende a superare i propri limiti, rischiando di causare seri danni ai muscoli, ai tendini e all’apparato cardiocircolatorio.

 

- Narcotici. Rientrano in questo gruppo l’oppio e i suoi derivati, tra cui l’eroina e la morfina. Eliminano la sensibilità al dolore (infatti sono spesso somministrati ai pugili). Provocano dipendenza.

 

- Betabloccanti. Prodotti di sintesi che provocano un rallentamento del battito cardiaco intervenendo sulla funzione beta del sistema nervoso e simpatico, permettendo di non far sentire la fatica reale. Provocano disturbi del sonno, asma bronchiale, allucinazioni e naturalmente il rischio di infarto cardiaco.

 

- Ormoni proteici, peptidici e simili. Questa categoria comprende quegli ormoni assunti illecitamente dagli sportivi per aumentare la muscolatura, la resistenza e sopportare grandi sforzi: l’ormone somantropo (GH - causa infarto, diabete e aumento dell’incidenza tumorale), la corticotropina (ACTH - causa osteoporosi, ritenzione idrica, ulcera, obesità), la gonodotropina corionica (HCG - causa emicrania, infarto, depressione) ed eritropoietina (EPO - aumenta il carico dei globuli rossi permettendo di trasportare più ossigeno ma aumentando il rischio di ostruzione di arterie e capillari, nonché malattie ematologiche, disfunzioni renali, aplasia midollare).

 
 

Doping, oggi

 

Dagli anni novanta ad oggi il fenomeno del doping, la sua pratica e la sua demonizzazione, hanno conosciuto una rapida ascesa in campo sportivo e sociale. Condannata attraverso una serie di leggi che purtroppo stentano nel definire il limite tra lecito ed illecito, la pratica dell’assunzione di sostanze stupefacenti ha assunto connotati pericolosi, ha cominciato ad essere considerata come un qualcosa di estremamente negativo da un punto di vista morale, e nocivo da un punto di vista fisico; tuttavia ha continuato ad esistere, e la scoperta di nuovi casi di atleti positivi alle analisi di controllo è all’ordine del giorno.

 

Tutto ciò mostra al mondo un lato dello sport che dovrebbe essere definitivamente debellato perché il doping, oltre che rappresentare una truffa nei confronti di chi gareggia regolarmente, mette a serio repentaglio la salute dell’atleta; il moderno mondo dello sport, tuttavia, con le sue grandi quantità di denaro promesse ai vincitori e i giri d’affari che coinvolgono gli alti livelli competitivi, quanto aiuta moralmente un atleta a tenersi lontano dal doping?

 

Più che una cura basata su considerazioni morali, infamanti e disprezzanti, la pratica del doping, per essere debellata, ha bisogno di un costante e sicuro controllo da parte delle autorità predisposte; parlarne troppo rischia di aumentarne l’interesse, di ricordare che il doping fa male ma con esso «si corre più veloce». Per quanto tempo ancora dovremo convivere con il sospetto e con il dubbio che tra 100 atleti "puliti" se ne possa nascondere anche solo uno dopato, magari proprio quello che va a vincere la gara? Per quanto tempo ancora lo sport avrà il coraggio di promettere fama, soldi e gloria agli atleti, in cambio della sicurezza della loro stessa vita?

 
 

Vittime di doping

 

Ben Johnson

 

Il grande bluff dell’atletica e certamente uno dei più clamorosi che la storia dello sport ricordi è certamente quello legato a Ben Johnson. Nato in Giamaica nel 1961 da una famiglia povera, emigrò a Toronto a 14 anni e qui prese cittadinanza canadese. Fisicamente dotato, si dedicò sin dai primi anni di età agli sport di velocità, seguito dal tecnico Charlie Francis (campione canadese negli anni ’60).

  

Johnson, che esordì nelle gare internazionali nel 1980, doveva essere l’erede di Carl Lewis, il Figlio del Vento, coetaneo di Johnson ma più precoce. I due si incontrarono per la prima volta in gara nel 1980 ai Panamericani Junior di Sudbury (vinse Lewis e Ben finì sesto). Nel 1984, nella 100 metri delle Olimpiadi di Los Angeles il secondo incontro; in quell’occasione Big Ben (così chiamato per il suo sprint esplosivo) ottenne il bronzo (10"22) alle spalle proprio di Lewis e Sam Graddy.

 

Deciso a surclassare definitivamente il rivale, nel giro di due anni Johnson incrementò le proprie prestazioni (nel 1986 corse i 60 metri in 6"50 e polverizzò il primato mondiale) al punto che qualcuno, tra cui Vanni Loriga del Corriere dello Sport, si domandò come potessero essere possibili certi «improvvisi e miracolosi progressi».

 


Johnson puntava al record dei 100 metri e all’umiliazione del rivale Lewis: attuò il suo piano nelle due "sfide del secolo". La prima si svolse il 30 agosto 1987 ai Mondiali di Roma: Johnson corse in 9"83, nuovo record del Mondo, e staccò il rivale - esterrefatto - di un metro. La seconda il 24 settembre 1988: ai Giochi di Seul corse in 9"79 lasciando Lewis a 9"92. In quest’ultima occasione lo scarto di Big Ben fu talmente ampio che prima dell’arrivo ebbe il tempo di guardarsi alle spalle e di alzare il braccio in segno di vittoria.

 

 

«Questo primato durerà 50 anni», dichiarò. Ma dopo appena 24 ore la notizia: l’atleta era risultato positivo al controllo antidoping  per assunzione di Stanozolol, steroide anabolizzante potentissimo; Johnson si dichiarò innocente a parlò di complotto organizzato dagli agenti di Lewis; ma il governo canadese avviò un’inchiesta e scoprì ben presto un intero clan canadese di atleti dopati, "coordinati" dall’allenatore Charlie Francis e dal medico Jaimie Astaphan. Proprio questi ultimi soggetti, in 50 e più ore di deposizione, rivelarono che Johnson prendeva steroidi, testosterone, il GH (ormone della crescita) e diuretici per cancellare le tracce, sin dal 1981.

 


Il 12 giugno 1989, a distanza di 273 giorni dalla vittoria-bluff, Big Ben confessò tra le lacrime: «Restate puliti», disse rivolgendosi ai giovani atleti, «Non prendete droghe. Non frodate lo sport». Tutti i suoi record vennero cancellati e fu squalificato per due anni; la pena, per un atleta che aveva appena confessato di aver fatto uso di doping praticamente dal suo esordio in pista, non fu nemmeno così severa.

 

Nel 1990 tentò un ritorno alle gare; ai Giochi di Barcellona fu eliminato in semifinale ma, nel 1993, al termine di una gara a Montreal, fu trovato positivo al testosterone e, quindi, squalificato a vita. Negli ultimi anni è tornato parlare di complotto e, in occasione della presentazione dell’autobiografia in uscita il prossimo settembre, ha annunciato che spiegherà nel dettaglio che, all’epoca in cui correva, non era l’unico a fare uso di doping. Il suo allenatore Francis, squalificato a vita dalla federazione canadese dopo aver ammesso di avere fornito le sostanze vietate a Johnson, è deceduto lo scorso maggio.

 

L’inganno perpetuato da Ben Johnson, indipendentemente da quello che potrà essere il suo epilogo, è stato certamente il più devastante per il mondo dell’atletica. Allo stesso tempo è stato il primo ad aver mostrato i progressi compiuti negli ultimi anni dalla industria del doping, divenuta a tutti gli effetti una scienza tanto pericolosa quanto subdola. Dopo Johnson molti altri atleti hanno cercato di vincere con il doping: molti sono stati scoperti, molti - forse - sono riusciti a farla franca. Per quanto tempo ancora lo sport dovrà convivere con il sospetto che la vittoria sia frutto solo dell’inganno?

 

Marion Jones

 


Nel bene e nel male quella di Marion Jones è una storia talmente ricca di colpi di scena che meriterebbe senza alcun dubbio una trasposizione cinematografica. Anche perché ha avuto un'importanza decisiva nella storia delle procedure antidoping.

 

Nata nel 1975 a Los Angeles, la Jones è stata fin dagli esordi un'atleta eccezionale; fenomeno sin da ragazzina, dopo esordi  felicissimi nell'atletica, preferisce il basket. Due fratture al piede sinistro la costringono a tornare alla velocità a partire dal 1996. Vince ai Mondiali di Atene i 100 metri e i 4x100 e nel 1998 trionfa in 19 gare su 19. Gli anni attorno al 2000 sono quelli che segnano il suo percorso: lascia il primo marito Cottrel J. Hunter, lanciatore del peso squalificato per doping, e dal 2002 si accompagna con Tim Montgomery (che sarà squalificato nel 2005...). Alle Olimpiadi di Sydney conquista 3 ori e 2 bronzi.

 

Alternando successi a brutte sconfitte, Marion Jones si ferma nel 2003 per maternità e ai Giochi di Atene del 2004 non si aggiudica nessuna medaglia. Nel 2006 sembra riprendersi vince 6 gare sui 100 metri. La sua stagione viene bruscamente interrotta dall'accusa di doping: è il 17 agosto 2006. Una telefonata la raggiunge a Zurigo, alla vigilia del meeting più importante della Golden League e la informa che è risultata positiva al test antidoping a cui era stata sottoposta in giugno nel corso dei campionati statunitensi di Indianapolis.

 

Clamorosamente le controanalisi la scagionano; la motivazione che trapela parla di un errore nelle analisi della prima provetta di liquido organico. «Ho sempre sostenuto di non aver mai assunto sostanze dopanti», dice, «sono felice che l'iter scientifico ora lo abbia dimostrato. Sono al settimo cielo non vedo l'ora di tornare a gareggiare». Ma i falsi errori dei laboratori - e la fortuna di taluni eventi - non possono nulla contro i rimorsi di coscienza. 

 

Nel maggio 2006, a 31 anni, la pantera nera si ripresenta in pista e vince i 100 al meeting di Xalapa. Ma dopo il terzo matrimonio con Obadele Thompson e la seconda maternità giunge inaspettata la confessione. La campionessa di atletica leggera ammette, in un tribunale di New York, di essere colpevole di due diversi reati legati all'assunzione di steroidi per migliorare le sue prestazioni: spiega di fare uso di doping (tra cui l’insulina in miscela con il GH e gli anabolizzanti) a partire dal 2000. Annuncia anche il suo ritiro dall'atletica leggera e sgretola così una carriera straordinaria troppo spesso gravata da sospetti e accuse. La Jones è squalificata formalmente per due anni e la Federazione internazionale di atletica leggera cancella tutti i risultati ottenuti a partire dal primo settembre 2000, staffette comprese.

 

L’11 gennaio 2008, dopo la condanna sportiva, arriva quella dei tribunali: sei mesi di carcere per aver mentito agli agenti federali sull’affare Balco e anche sulla frode bancaria legata all’ex-marito Montgomery. È il definitivo epilogo di una carriera che poteva entrare della Storia dell’atletica, e che, invece, la Storia dell’atletica ricorderà sotto tutt’altra luce. Sottoposta a processo al tribunale di White Plains è condannata a scontare 6 mesi di carcere per le false dichiarazioni rilasciate nel 2003, nell'ambito dell'inchiesta Balco che coinvolse anche il marito Montgomery.

 
 
 

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