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Sport e anoressia: aiuto o pericolo?


Anoressia, che letteralmente significa "senza appetito", in realtà indica un malessere molto più serio e preoccupante. Dal semplice "non mangiare", il soggetto affetto da anoressia, passa spesso a repulsione ossessiva nei confronti del cibo che ovviamente possono portare a malnutrizione, sofferenza e, nei casi più gravi, morte. Ma l'anoressia si può curare? E l'attività fisica può rappresentare un aiuto o un ulteriore pericolo ai soggetti che ne soffrono?

I medici parlano di anoressia quando il paziente che ne soffre riduce il proprio peso dell'85% rispetto a quello previsto per la propria età, altezza, sesso. Nasce come conseguenza di alterazioni metaboliche, malattie come gastriti, alcune forme di cancro; ma soprattutto si sviluppa come una nevrosi e, non a caso, l'anoressia cosiddetta "nervosa", cioè appunto non derivante da cause congenite, è, secondo la classificazione internazionale della malattie (ICD), al primo posto con la bulimia, il principale disturbo del comportamento alimentare.

Quello che sconvolge, secondo le più recenti ricerche, è l'abbassamento dell'età in cui i sintomi si manifestano: anche se i disturbi del comportamento alimentare sono diffusi principalmente in adolescenti e giovani donne, gli studi condotti sulla fascia d’età 8 – 14 indicano una elevata presenza di comportamenti alimentari in soggetti prepuberali.

La scienza conosce da almeno 3 secoli il fenomeno: il primo trattato medico fu pubblicato nel 1694 a Londra. Freud, tra gli altri, ebbe modo di studiare la malattia, giungendo alla conclusione che l'anoressia nervosa potesse essere strettamente correlata a una forma di malinconia a cui non corrispondeva un'evoluzione sessuale matura.

Gli studi, nel corso degli anni, hanno poi accertato che si tratta principalmente di un disturbo femminile, riguardando ad oggi circa il 90% dei casi.

Il dramma dell'anoressia risiede anche nelle sue conseguenze, dato che gli effetti durano anni (se non per sempre) sia sotto il profilo fisico che quello psicologico.

Come riporta il sito Epicentro.iss.it, a questo indirizzo, «dal punto di vista fisico, gli effetti della malnutrizione comportano ulcere intestinali e danni permanenti ai tessuti dell’apparato digerente, disidratazione, danneggiamento di gengive e denti, seri danni cardiaci, al fegato e ai reni, problemi al sistema nervoso, con difficoltà di concentrazione e di memorizzazione, danni al sistema osseo, con accresciuta probabilità di fratture e di osteoporosi, blocco della crescita, emorragie interne, ipotermia e ghiandole ingrossate. Le ripercussioni psicologiche, invece, comportano depressione, basso livello di autostima, senso di vergogna e colpa, difficoltà a mantenere relazioni sociali e familiari, sbalzi di umore, tendenza a comportamenti manichei e maniacali, propensione al perfezionismo».

Come accorgersi del sopraggiungere della malattia? Spesso, una persona anoressica comincia con l’evitare tutti i cibi ritenuti grassi e a concentrarsi su alimenti ‘sani’ e poco calorici, con una attenzione ossessiva al contenuto calorico e alla composizione dei cibi e alla bilancia.
Ma sono fondamentalmente due i modi in cui essa si manifesta: 

• con restrizioni, determinata dalla riduzione costante della quantità di alimenti ingeriti.
• con abbuffate e successiva eliminazione: alimentazione compulsiva seguita da vomito autoindotto, uso inappropriato di pillole lassative e diuretiche, iper-attività fisica per perdere peso.

In entrambi i casi la "questione cibo", diventa la principale ossessione di vita del paziente.

Causa o rimedio?
Veniamo dunque al centro del nostro approfondimento, ossia il ruolo dell'attività fisica nel contesto legato alle problematiche dell'anoressia.

Sul sito StateOfMind, a questo indirizzo, il problema è posto in questi termini che ci sentiamo di condividere: «Ci sono diverse ragioni per le quali si possa pensare che gli atleti siano più a rischio di sviluppare una problematica alimentare: in primo luogo gli atleti sono esposti a una pressione socioculturale maggiore rispetto alla popolazione, sull’essere conformi ad un ideale di forma corporea ben precisa; questo accade soprattutto negli sport in cui è richiesta la magrezza per ragioni di performance o apparenza, come ad esempio la danza, la ginnastica artistica. In secondo luogo molto spesso gli atleti vengono descritti come perfezionisti, orientati all’obiettivo, competitivi e preoccupati dalla buona riuscita della performance: queste caratteristiche sono altresì caratteristiche personologiche peculiari frequentemente associate ad individui che soffrono di disturbi alimentari. In terzo luogo l’esordio dei disturbi alimentari risale all’adolescenza o alla prima età adulta, periodo in cui inizia anche la partecipazione a competizioni degli sportivi».

In particolare il punto di contatto avviene, a nostro avviso, quando l'attività fisica sfocia nell'ormai molto dibattuto "Overtraining", o "dipendenza sportiva”: una tendenza comportamentale di eccesso che porta ad uno squilibrio nel rapporto con lo sport. Studi recenti hanno evidenziato il rischio della comparsa dei disturbi di anoressia a bulimia nervose associate alla “pratica fisica dipendente” e alimentate dalle stesse motivazioni di controllo del peso e dell’aspetto fisico che si pongono alla base dell’exercise addiction, soprattutto nelle donne.

Questo perché negli uomini le motivazioni alla base della dipendenza sportiva, se legate al controllo dell’immagine corporea, portano più spesso a mostrare il problema della cosiddetta anoressia inversa (vigoressia), ossia quella paura patologica, tipica di alcuni bodybuilders, di diventare troppo magri, deboli e sottosviluppati dal punto di vista muscolare. Ciò che appare comune è la presenza di un comportamento di iper-controllo dell’alimentazione associato alla dipendenza da esercizio fisico.

In nostro aiuto viene l'importante contributo del dott. Marco Perugini ell'articolo pubblicato a questo indirizzo del sito Scientific Training: «Per la sua capacità di ripristinare una relazione armonica tra le parti corporee in movimento, e favorire un’integrazione psico-motoria, e dunque un miglioramento dell’immagine corporea, l’esercizio fisico può dimostrarsi più efficace anche della terapia cognitivo-comportamentale nell’attenuare la spinta alla magrezza, sintomo nucleare dei disturbi del comportamento alimentare, e ridurre il ricorso a pratiche anomale di eliminazione delle calorie introdotte con la dieta (condotte di eliminazione). Ciò si accompagna ad un miglioramento della struttura corporea, più armonica e tonica, che ulteriormente incrementa il senso di benessere dei pazienti.

Alcuni studiosi, tuttavia, sostengono fermamente che l’impegno in attività sportive nasconda o favorisca un aumentato rischio di sviluppare disturbi del comportamento alimentare. Alcune discipline richiedono infatti un particolare peso corporeo, una particolare forma del corpo, ed un allenamento molto estenuante, al fine di ottenere una performance adeguata con il conseguente adattamento della condotta alimentare alle richieste della prestazione sportiva».

Inutile nascondere che l'attività agonistica, quando praticata a livello più o meno professionale, imponga un regime alimentare adeguato e un conseguente fisico coerente.

«Circa il 50% delle donne che presentano disordini alimentari si allena in maniera eccessiva, talvolta in modo ossessivo sviluppando una vera e propria dipendenza dall’attività fisica, cercando di dedicare più tempo possibile all’allenamento anteponendolo alla carriera, alle relazioni interpersonali e alla stessa famiglia. L’impossibilità di praticare esercizio fisico spesso sfocia in sintomi di privazione come ansia, inquietudine e sbalzi d’umore finendo per culminare in una restrizione alimentare. Tali sintomi si affievoliscono solo quando l’esercizio viene ripreso e portano il soggetto alla completa incapacità di controllare la propria vita che finisce con l’essere sottomessa alla pratica sportiva».

Lo sport che sottomette è un'immagine dalla quale vorremmo fuggire, ma non deve essere ignoarata, soprattutto quando riguarda atleti e atlete giovanissimi.

Ecco dunque il punto su cui lavorare: l'eccessiva magrezza è dannosa anche e soprattutto ai fini della prestazione sportiva.

«I comportamenti che adottano per raggiungere gli obiettivi estetici e prestazionali, come semi-digiuno, purganti, attività fisica eccessiva, hanno realmente un effetto contrario sulla salute, sulle riserve energetiche e sulle funzioni fisiologiche, diminuendo la loro capacità di allenarsi e competere.

La restrizione calorica tipica dell’anoressia nervosa e una ridotta disponibilità energetica, come conseguenza dell’uso di purganti, finiscono con l’esaurire rapidamente le riserve di glicogeno nell’organismo non rendendolo quindi disponibile come energia di pronta utilizzazione per la produzione di potenza muscolare durante esercizio aerobico ed anaerobico di elevata intensità.

Quindi, anche brevi periodi di disordini alimentari possono influire profondamente sull’allenamento dell’atleta, su come compete e recupera, sull’assunzione proteica favorendo la perdita di massa magra, sull’introito di vitamine e minerali sostanze importanti per il metabolismo energetico, crescita e riparazione dei tessuti contribuendo al peggioramento della prestazione e aumentando il rischio di infortuni».


Fuga dall'anoressia
Uscire dall'anoressia si può, tenendo conto che si tratta di una malattia che solitamente ha una causa psichica e che quindi richiede una cura psicologica, ma che porta quasi sempre a conseguenze fisiche potenzialmente devastanti, in nessun caso da sottovalutare.

Chi può aiutare un paziente affetto da anoressia? È fondamentale comprendere quanto sia difficoltoso per il soggetto anoressico-bulimico lasciarsi aiutare, proprio in virtù dell’integrazione di questi sintomi all’interno della propria identità: e anoressie-bulimie divengono per il soggetto un elemento di strutturazione della propria identità.

Tenendo conto che quasi sicuramente non avverrà un'esplicita richiesta d’aiuto da parte del soggetto malato, dapprima l'amico o il familiare (le persone vicine al paziente), quindi il terapeuta potranno essere percepito da questi pazienti come minaccia a una propria scelta.

Ci sentiamo di condividere il ragionamento di Medici Italia, pubblicato a questo indirizzo: «L’affrontare esclusivamente il sintomo attraverso manovre miranti al recupero del peso corporeo o al ripristino della condotta alimentare, senza imperniare saldamente la terapia sugli aspetti psicologici, può esporre il soggetto al rischio di una frammentazione del proprio Sé o della propria identità (a seconda del paradigma psicologico con cui si osserva il fenomeno), con conseguenze negative sull’evoluzione del disturbo e/o con la possibile comparsa di nuovi sintomi psichiatrici.

Per tutti questi motivi, nell’anoressia così come nella bulimia non va semplicisticamente curato il rapporto con il cibo, ma è necessario andare oltre le apparenze e assistere la persona nel riorganizzare l’intera personalità e il proprio orizzonte di emozioni, sentimenti, motivazioni e relazioni.

I livelli di assistenza nella terapia possono essere riconducibili a cinque:
1.Ricovero d’urgenza/emergenza
2.Ricovero Ospedaliero ordinario
3.Residenza/comunità terapeutico-riabilitativa
4.Ambulatorio specializzato
5.Medico di base e pediatra

La scelta di un livello o dell’altro deve essere effettuata sulla base della valutazione di appropriatezza per ogni singolo caso, in funzione dell’età del soggetto, delle sue condizioni psicologiche e fisiche, della rete di supporto familiare e relazionale, oltre che della durata dei sintomi. La maggior parte dei pazienti, comunque, devono ricevere trattamenti a livello ambulatoriale. Altri livelli di assistenza, vengono attivati in base alle necessità e/o all’evoluzione nel processo di cura, su indicazione del terapeuta che ha in carico la gestione del paziente.
Allo stato attuale della ricerca scientifica i trattamenti farmacologici per anoressia e bulimia hanno dato risultati poco soddisfacenti».

Tanti passi sono stati fatti per prevenire, combattere e sconfiggere l'anoressia. Tanti ancora dovranno essere compiuti. Soprattutto nel campo dell'alimentazione sportiva e nei rischi che comportano prescrizioni sbagliate, e sessioni di allenamento eccessive. Guai a confondere una sintomatologia clinica da una coerenza alimentare dell’atleta finalizzata al raggiungimento di una forma fisica perfetta oppure di una prestazione ottimale nella propria disciplina sportiva; guai a sottovalutare, dall'altro lato, segnali della presenza del disturbo. La cosa migliore da fare, in questo caso è quella di rivolgersi a un medico tempestivamente, che sarà in grado di decidere se il nostro figlio, il nostro studente o il nostro amico avrà necessità di interventi specialistici.

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