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Quando la maratona divenne specialità (anche) femminile


Si è svolta lo scorso weekend la 121a edizione della maratona di Boston, che ha visto la vittoria del keniano Geoffrey Kirui (classe 1992). Anche al femminile, successo keniano di Edna Kiplagat (37 anni). La vittoria di Kirui ha un'ombra italiana, perché l'atleta è seguito dal piemontese Renato Canova. Per non dimenticare le vicende tristemente famose legate agli attentati del 2013, è interessante recuperare un po' di storia di questa maratona. Alla gara di Boston sono legate, infatti, le prime due partecipazioni femminili ad una gara di maratona: quella di Bobbi Gibb nel 1966 (che però non si era iscritta alla gara) e quella del 1967 di Kathrine Switzer (iscritta e quasi costretta al ritiro).

Correva l'anno 1967 e nella ricca e avanzata Boston ci si poneva ancora grandi dubbi sul se e come le donne potessero praticare specialità dure e notoriamente maschili come la maratona. Avessero riflettuto sulle origini della disciplina, le perplessità sarebbero svanite: si immagina che il soldato scelto per percorrere la distanza tra Maratona e Atene, Fidippide, non dovesse essere un portento con le armi e fosse impiegato per altri fini, assecondando un suo talento. I guerrieri virili per eccellenza sarebbero rimasti sul campo di battaglia mentre Fidippide correva a briglia sciolta appesantito dalle armature, esalando l'ultimo respiro nel dare il lieto annuncio di vittoria.

Naturalmente queste storie non potevano turbare un bianco protestante come Jock Semple (il nome è ricordato, a dannarne la memoria, sul sito del Boston Globe ma non su Il Post italiano). Questo omone ebbe la "fortuna" di venire fotografato mentre strattona una ventenne che corre col numero 261. Si trattava di Kathrine Switzer, la prima donna a correre una maratona dopo un duro allenamento e affiancata, durante la prestazione, dall'allenatore e dal fidanzato. Un ragazzo, questi, che non perse un attimo a scagliarsi contro il paffuto Semple e rimetterlo a bordo strada. Peccato che il retrivo omino avesse ormai strappato parte della pettorina della Switzer.

Ma come aveva fatto, una donna, a iscriversi a una maratona dalla quale era virtualmente esclusa? Col più semplice dei modi: firmando il nome di battesimo con le sole iniziali. Il trucco passò inosservato perché nessuno poteva sospettare un gesto così blasfemo (o controcorrente) in quegli anni. Basti ricordare che solo nel '71, tre anni dopo gli eventi qui descritti, le donne furono ammesse alla maratona di New York. Boston, invece, che vantava una competizione dalla storia onorata (risale infatti al 1897 la prima edizione annuale, a un anno dall'inaugurazione "avveniristica" delle Olimpiadi del barone di Coubertin), attese un anno per rimanere ancora un po' nel suo dogma maschilista e seguì poi l'esempio newyorkese.

Anche nella storia del femminismo, è interessante e istruttivo ricercare i precedenti. La storia della Switzer fece scalpore per il contesto in cui si inseriva e forse, soprattutto, per le immagini in cui veniva letteralmente "braccata" (a proposito, l'uomo non  l'aveva raggiunta di corsa ma con un pullmino, senza il minimo senso del ridicolo). Ma già un anno prima, nel '66, la Gibb aveva partecipato immettendosi nella gara dopo essere uscita... da un cespuglio.

E anche nell'anno della Switzer, la Gibb fece valere la sua esperienza e chiuse in tre ore e mezza. Seguì, un'oretta dopo, la Switzer col numero 261. Esso oggi non viene più assegnato per questa maratona, in ricordo di di un'atleta che ha fatto la storia.

[Andrea Bianchi]

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