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Materiale Didattico

Piccoli inconsapevoli eroi del baseball


 

Pubblichiamo un bellissimo racconto di Giovanni Tommasini che spiega, più di ogni altra pagina di teoria, mille aspetti del baseball, uno sport ricco di emozioni e suggestioni seppur ancora poco diffuso in Italia. Dai primi allenamenti alla prima trasferta, una giovane squadra di Sanremo organizza e disputa il suo primo incontro "da grandi"; un ricordo che resterà per sempre impresso nella loro memoria.

 

Personaggi romanzati ma realmente esistiti: Il lanciatore Fulvio Valle ha giocato per molti anni a Parma nella migliore delle squadre della lega maggiore e è stato per molti anni il lanciatore della nazionale, giocando alle olimpiadi di Barcellona. Il ricevitore Matteo Arieta ha giocato in serie A sia con il Sanremo (quella squadra è arrivata in serie A!) e nella Juventus a Torino anch'essa buona squadra di serie. L'interbase Stefano Ballestracci il più talentuoso ha giocato in età precoce in serie A con il parma per tre anni poi ha smesso di giocare.

 
 

Era così che ci chiamavamo. Le casacche erano gialle e arancioni con scritto sul petto TOMATO.

 

A me TOMATO faceva venire in mente quelle belle scatole di pomodoro che avevano ispirato Andy Wharol. Noi eravamo così, piccoli contenitori pieni di polpa rossa vivissima.

 

Avevamo deciso di giocare a baseball e avevamo chiesto una palestra al comune. Il comune ci aveva dato i sotterranei di un posteggio nel centro della città dei fiori.

 

Il piano zero di tre piani, dei quali già i primi due sotto il livello del suolo.

 

Noi chiamavamo la nostra “palestra” le catacombe.

 
 

Insieme con noi in quel luogo dalle pareti rocciose completamente e sempre bagnate, grondanti umidità, c’erano “quelli che si bucano”. Noi da una parte a perderci dietro a una maledetta pallina, loro al lato opposto presi da una maledizione, persi in labirinti di dolore. Il rispetto misto a sana indifferenza era però reciproco visto che nessuno voleva perdere quel posto.

 

Prima di scendere, aspettando tre piani più su che arrivassero tutti i nostri compagni, senza i quali mai saremo scesi “giù”, spesso iniziavamo il “riscaldamento”, che consisteva nel lanciarsi la palla (una vera e propria pietra che prima di scioglierci ben bene il guantone e la mano noi odiavamo) per scaldare il “braccio” e ogni tanto una cadeva lì sotto nella nostra “palestra” gentilmente concessaci dal comune della città dei fiori che probabilmente alla richiesta per giocare a baseball avrà pensato: “baseball? che roba è?!”….

 

Allora chi era il responsabile della mancata presa o del lancio sbagliato (erano discussioni infinite, surreali) doveva andare a prenderla. Con grande paura ogni volta si scendeva da soli con la sensazione di poter incontrare faccia a faccia quei ragazzi che al posto del braccio scaldavano un cucchiaio al quale chiedevano la restituzione di quel calore mai provato. Arrivati tutti, si scendeva insieme, dovevamo ancora imparare “l’arte del baseball” ma eravamo già una vera squadra, sicuri che niente ci sarebbe capitato e i nostri vicini avrebbero capito la nostra missione e il nostro rispetto verso loro. Li rispettavamo e quando una pallina li raggiungeva con un sorriso come per scusarsi, ce la rilanciavano. Era una relazione di reciproca comprensione.

 

Stava nascendo il Sanremo Baseball, la paura prima provata nella discesa in solitaria si era trasformata in un entusiasmo sordo scandito dal secco incontro della pallina con il guanto durante i lanci che aprivano ogni allenamento. Uno di fronte all’altro alternavamo il “lancio” alla “ricezione” i primi due fondamentali senza i quali niente sarebbe iniziato, ci guardavamo negli occhi per capire che stavamo a farci in quel luogo, dieci anni appena compiuti e la mano spaccata in due dalla pallina appena ricevuta.

 

“Ho la mano ghiacciata come faccio a ricevere sta pietra che lei ci dispensa manco fosse un’ostia” pensavamo guardando il nostro “maestro” (solo lui sapeva il perché e lo avremmo capito una volta iniziata la primavera e avremo fatto gli stessi esercizi con il caldo e sul “diamante” l’unico campo da baseball tra Liguria e costa azzurra e la sensazione provata sarebbe stata come quando dopo dieci ore di sci dagli scarponi si passava ai mono bot una sensazione di liberazione, come volare….ma tutto ciò per ora non potevamo neanche sognarlo).

 

Non era permesso lamentarsi.

 
 

Infatti dopo le prime ricezioni il dolore si scioglieva in calore e la pallina diventava un tutt’uno che andava dal nostro guanto al braccio del nostro compagno, il quale di fronte a noi ne avrebbe ricevuto, lancio dopo lancio, uno più violento di quello da lui appena eseguito. Ci davamo dentro come matti. C’erano solo due guantoni completamente diversi dagli altri. Quello del “prima base” e quello del “ricevitore”. Tutti e due molto ambiti soprattutto perché permettevano difendersi al meglio dalla bastardaggine di quella pietra che non avevamo ancora deciso se amare o odiare. 

 

Il più bello era quello del ricevitore. Tondo, con i bordi spessi e morbidi, due grandi labbra magiche, risucchiava la palla violentemente scagliata dal lanciatore senza far provare alcun dolore a chi lo usava. Tutti lo volevamo ma solo uno lo poteva avere. A chi questo privilegio? Che qualità diverse dagli altri doveva avere il ricevitore? Quali il prima base? (il quale avrebbe avuto il guantone più lungo con una parte per la ricezione immensa tanto da far arrivare la pallina al contatto con la mano ormai senza forza) 

 

Per il momento tutti un po’ ricoprivano tutti i nove ruoli ma per ognuno era prevista una personalità e abilità uniche e differenti. Non ne eravamo consapevoli e facevamo solo ciò che ci veniva indicato dai nostri due allenatori. Marcello e Fulvio.

 

Erano lì con noi e un progetto comune: creare una squadra di baseball, la migliore della Liguria. Il fatto che per il momento in regione non c’è n’erano altre permetteva loro di aver la sicurezza che solo i grandi ideali possono assicurare. Due personalità opposte, si integravano perfettamente.  Volevano la stessa cosa ma per realizzarla partivano da punti opposti. Era il loro personale rapporto con la realtà a essere estremamente diverso.

 

L’uno, Marcello, del “tutto” curava in modo maniacale le varie “parti”. L’altro, Fulvio, prendeva queste parti, le disponeva sul diamante per farci vivere un fantastico assemblaggio che assicurava il “tutto”. Le parti erano i “fondamentali”. Il “tutto” la strategia di gioco. Non si erano divisi i compiti era una loro profonda esigenza. Due approcci diversi alla vita. Era una risposta alla Mancanza. Quella più antica, eterna, nata con lo sbarco dal perfetto e saturo mondo prenatale.

 

Come affrontarla?

 

Due modi, due possibilità, due strade diverse avevano preso. Tentare l’impresa impossibile che lasciava ogni volta rabbia e delusione e cercare di riempire quel vuoto. Era ciò che tentava di fare Fulvio. O accettarla questa irrisolvibile mancanza. Scontando la vittoria della realtà sul progetto ideale, girare attorno al vuoto come un satellite in una continua e vitale ricerca del gesto perfetto. Giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, lancio dopo lancio, ricezione dopo ricezione, faceva i conti con la sua Mancanza, curava ogni particolare perché per lui la vita era una allenamento alla “sofferenza”, non una partita con questa.

 

Marcello aveva scelto la cura dei fondamentali, il particolare e lui era così. Asciutto, spigoloso, essenziale, non ci contava balle. Voleva renderci unici, farci sentire la fiducia che aveva in ognuno di noi, tutti potevamo dare il meglio di noi stessi esprimere la nostra autenticità, era un fuoriclasse anzi fuoricompetizione, era fuori dalla logica dei vinti e vincitori. Per lui il baseball era un arte. Infatti alle partite aveva rinunciato a venire. Soffriva troppo non ce la faceva. O forse semplicemente per Lui non contava il risultato finale, troppo volgare, visto che l’importante era l’esprimere noi stessi nel gioco, nel gesto, nella capacità di isolarci da tutto iniziata la partita e dare tutto. Per aver la sicurezza, una volta rientrati negli spogliatoi, di aver fatto il proprio dovere sino in fondo. Avrebbe voluto farci sentire, capire e far anche nostro, il suo modo di vedere le cose. Noi alla fine di ogni allenamento sentivamo di essere strati nutriti da lui. Dopo di lui nessuno sarebbe più riuscito a cambiare il nostro modo di essere agli allenamenti e in campo durante la partita. Avevamo appena iniziato a scrivere la nostra età in doppia cifra ma affrontavamo ciò che ci insegnava da professionisti perché era più bello, più coinvolgente e sentivamo che nulla sarebbe stato come prima. Io lo amavo, lo sentivo vicino, sapevamo che non voleva fregarci. Voleva svuotarci, allontanare per sempre l’adulta agonia del riscatto. Non vi riscatterete mai, voleva farcelo capire, arrendetevi curate i particolari godetevi ogni momento prima o poi verrete coinvolti. La pallina battuta dall’avversario verrà come in un flash verso di voi e lì in un attimo non avrete che da essere unici, veri, tutto l’allenamento fatto, i fondamentali ormai parte integrante del vostro essere al mondo, in un attimo in automatico o vi permetteranno di dare la risposta migliore e far vostra la pallina per poi eliminare il battitore o non la vedrete neanche passare e avrete solo da aspettare la prossima occasione.  Ci chiedeva ogni volta una dedizione totale per un giorno essere parte di una impresa. 

 

Noi avevamo anche da confrontarci con Fulvio. L’altra faccia della medaglia si potrebbe dire. Bastava guardarlo per capire che la prospettiva era ribaltata, non solo diversa. Un Charlie Brown della riviera dei fiori, lui tentava l’impossibile. Tornare alla totale assenza di vuoto, eliminare la Mancanza. Solo uno era il suo obiettivo. Arrivare un giorno, tramite la perfetta disposizione dei suoi “uomini” in campo, alla saturazione di quel vuoto. A noi richiedeva, anche lui, il massimo impegno. Apprendere ogni meccanismo, strategia, ogni fase possibile di gioco, anticipare gli eventi, essere prima dei fatti già sul luogo per non dare a nessuno la possibilità di riaprire ferite. Ci stanno attaccando, come ci difendiamo? Disporre la squadra in modo tale che nessuna parte del campo fosse “scoperta”. 

Ora una precisazione va fatta. Il baseball è forse l’unico sport sulla terra che contempla il gioco di squadra e quello individuale. Nove i giocatori. Nove gli Inning. Un inning, chiamiamolo una singola fase di gioco, si divideva in due parti. La fase di attacco e quella di difesa. Nella prima metà una squadra attaccava andando in battuta un giocatore alla volta in una sequenzialità dichiarata prima dell’inizio della partita. E lì era un gioco individuale. Battitore e lanciatore. Una sfida, un duello vero e proprio. 

 

Eliminati tre giocatori della squadra in attacco da parte della squadra schierata in difesa si ribaltava il tutto. I difensori andavano a attaccare e chi aveva appena finito di battere andava alla difesa delle basi e del diamante tutto. Con Fulvio si stava tre ore la settimana chiusi in una stanza a studiare come era possibile che nessuna parte del campo fosse “scoperta”. In quei momenti nei quali si curava solo la fase difensiva strategicamente, fantasticando situazioni di gioco sulla carta, Fulvio riusciva a sublimare la sua più grande paura: scoprirsi irrimediabilmente vulnerabile.

 

Fantasia e realtà. La realtà la lasciava volentieri a Marcello con il quale si curava la difesa ma nel suo momento unico e irripetibile che era il nostro rapporto con la palla che veniva battuta e che noi da veri artisti dovevamo prendere senza una sbavatura rilanciare senza una imperfezione nella traiettoria per farla arrivare prima del battitore sulla base che voleva conquistare così da eliminarlo: un’opera d’arte insomma. Usciti da quella stanza si tornava tutti a essere in mezzo a una strada e prima o poi il campionato sarebbe iniziato. Lui alle partite veniva. Soffriva le pene dell’inferno. Ogni volta iniziato il conto alla rovescia partito con il primo lancio della “partita” iniziava un calvario. Si era passati al reale e la teoria dovevamo realizzarla Noi.

 

Con tutta sincerità tutte queste componenti “esistenziali” per fortuna a Noi erano al momento sconosciute e ci limitavamo a considerare i nostri due condottieri solo dei gran rompiscatole. Ma la nostra grandezza era nell’ affrontare tutto eroicamente. Era un mondo adulto e noi da adulti ci comportavamo. Avevamo la sensazione che a prescindere da tutto Marcello e Fulvio ci stavano dando una grande chanche. Fare un’esperienza notevolmente sproporzionata alla nostra età per poi averne il ricordo quando la vita ci avrebbe coinvolto definitivamente e senza sconti. Un tesoro prezioso. Infatti agli allenamenti non mancavamo mai. Tre quattro ore nelle quali entravamo in un’altra dimensione. 

 

Appena iniziata la primavera lasciavamo con grande sollievo le “catacombe” e finalmente potevamo andare ad allenarci sul “campo”. Vivevamo tutto l’inverno con l’immagine del “diamante” di fronte a noi. Era il nostro Eden. Niente reggeva il confronto. Una culla, una lingua di terra in mezzo al mare. Una volta messo piede lì dentro nessuno pensava al momento nel quale avrebbe lasciato quel luogo. Erano allenamenti senza tempo. Un sogno, ostinatamente coltivato tutto l’inverno, che si realizzava. Era stato creato dal nulla rubando spazio al mare, il “diamante”, con terra da riporto portata lì per riempire un vuoto, e alle volte correndo non sentivamo più l’erba sotto i nostri piedi, la terra aveva avuto dei cedimenti, e a noi sembrava di volare. Buche che guardando dall’alto, dall’aurelia arrivando al campo, non si vedevano. 

 

Era il nostro “campo”. Il “diamante” di Pian di Poma a metà strada tra Sanremo e Ospedaletti si vedeva dalla strada, risplendeva di luce propria. I campi da calcio visti senza i giocatori non sanno di niente. Quando con i miei compagni di squadra arrivati al capolinea scesi dal filobus lo vedevamo acceleravamo il passo rapiti da quella vista. Era delicato, aveva bisogno di continue cure. Noi sentivamo l’unicità di questa opera d’arte e avevamo un rapporto sentimentale con quel pezzo di terra. Andava a sovrapporsi al seno buono della mamma. Esauriente, nutriente, ci accoglieva, ci permetteva di esprimere noi stessi liberamente, pian piano ci dava il tempo per crescere.

 

Lo abbiamo accolto in noi per portacelo con noi tutta la vita ricercando un luogo almeno simile.

Avevamo scelto il baseball, uno sport che non potevamo affrontare solo con la parte più istintiva di noi stessi. Era richiesta la partecipazione di tutte le parti della nostra personalità. Non si poteva barare. Le regole erano molto chiare. Tanto per iniziare per capire con che cosa avremo avuto a che fare non si poteva essere attaccanti e difensori nello stesso momento. La separazione era netta e se quando eravamo in difesa potevamo sentirci uniti e parte di una squadra poi ci aspettava il momento nel quale la solitudine era una cosa prevista e fondamentale per poter battere l’avversario. Si doveva andare alla casa base e affrontare il migliore degli avversari, il lanciatore: soli di fronte a lui e tutta la squadra avversaria.

 

Non esisteva il “centrocampo”. Luogo di metabolizzazione, mediazione, dovevamo crearlo in noi non potevamo che far affidamento su noi stessi per essere pronti per il duello con la “punta di diamante” della squadra avversaria. A Nizza per la partita pre-campionato appena finito l’inverno l’esperienza era la più “assoluta” “solitaria”.

 

“ragazzi io l’anno scorso ci ho giocato… la panchina e tutta squadra è distante troppo lontana, arrivi per il tuo turno di battuta e non ti senti “solo” ma semplicemente disperato. I compagni ti mancano tantissimo e devi affrontare il pubblico nemico, tutta la squadra avversaria che ti guarda in attesa della battuta, il ricevitore ai tuoi piedi e la mazza che ti trema tra le mani”.

 

Che fare allora? Dopo una serie umiliante di eliminazione (terzo strike…, …..STRIKE OUT quasi con cinismo l’arbitro dietro il ricevitore ci urlava senza pietà) iniziavamo a capire la “lezione”. Per prima cosa era necessario affrontare la paura di essere eliminati. La cosa migliore da fare per iniziare un percorso di “emancipazione “, che poi era di “crescita interiore”, era realizzare che non era la via migliore pensare di eliminare a nostra volta il lanciatore prima che lui vincesse su di noi. Le prime volte si andava in battuta semplicemente traducendo la paura in aggressività, primaria risposta, atavica. Un unico pensiero: ribattere la pallina. Non si era ancora entrati nel mondo relazionale. 

 

Un legame si era creato. Una volta entrati in quell’area si formava un tutt’uno tra NOI IL LANCIATORE IL RICEVITORE E L’ARBITRO e tutto attorno a noi scoloriva. Attratti e legati al PIATTO. Satelliti della CASA BASE.  “Piatto”, “casa base”, definizioni per un'unica perfetta forma che ci riportava all’ORIGINE. Dalla quale scappavamo appena riusciti a ribattere al meglio delle nostre capacità e possibilità la “pietra appena scagliata” e verso la quale speravamo di tornare una volta riusciti a conquistare la “prima base”. Ormai eravamo in gioco e per uscirne avevamo due modi, due vie, due possibilità. O venivamo nel tragitto verso la riconquista della MAMMA appena lasciata ELIMINATI, o dopo aver conquistato grazie alle successive battute dei nostri compagni anche la seconda e la terza base saremo riusciti a coronare il nostro SOGNO: tornare lì sul luogo del duello iniziato con grande paura lasciato con enorme sollievo e trepidazione per passarci sopra toccandola e guardando finalmente gli avversari e il lanciatore, stavolta noi, a testa alta.

 

Situazioni completamente opposte difesa e attacco noi dovevamo accoglierle entrambe. Farle nostre accettare l’alternanza della condivisione con la solitudine. In difesa eravamo tutti assieme, i segnali che il RICEVITORE (il nostro condottiero, l’uomo della squadra il nostro compagno che ci bisticciavamo per stare seduti accanto a lui sul pullman per le trasferte) mandava al lanciatore per chiedere il lancio più “adatto” e difficile per il battitore venivano ridondati a tutta la squadra in modo da disporsi sulla battuta più prevedibile per il tipo di lancio richiesto e in un istante ci sentivamo uniti per difendere il diamante e non permetterne la conquista. Le basi erano territorio minato e eravamo noi, assieme al flash della battuta, che ne avremo disinnescato ogni possibile esplosione e tentativo di conquista. 

 

L’inverno (stagione che tra Sanremo e Nizza era una qualsiasi primavera da Masone in su) era una lunga faticosa e molto approfondita preparazione per la PRIMA. Solo in quell’occasione avremo capito tutto, si sarebbero raccolti i frutti delle “catacombe” e delle ore passate in quella stanza con Fulvio a studiare il modo migliore per saturare ogni “vuoto”. Volevamo ottenere un “diamante” senza difetti. 

 

La partita che quell’anno avremo affrontato per testarci prima dell’inizio del campionato per noi non era solo una normale partita di pre-campionato ma il nostro esordio….. una sorta di iniziazione e per non farci mancare niente sarebbe stata in terra straniera. Dopo quella partita TOMATO-NICE COTE D’AZUR, non l’avremmo mai immaginato, niente sarebbe stato come prima. Nizza, città italiana rubata dagli odiati vicini francesi. Noi volevamo riconquistarla. Era la prima trasferta.

 

 Appuntamento in Piazza Colombo. Pochi metri dall’Ariston. Una settimana all’anno ci divertivamo a vestirci da star e far finte interviste con Marcello e i turisti ci guardavano….”cosa avrebbero cantato al Festival?”. Fantastico il nostro maestro. Ci passava sana follia sperando potessimo affrontare la vita come faceva lui: da artisti. La rassegna canora era finita da poche settimane e sinceramente quella mattina il tempo tutto faceva pensare tranne che a una partita di baseball. Piovigginava, noi con le sacche della mazze, i nostri amati guantoni nei borsoni assieme ai panini, alle bistecche alla milanese e uova sode preparate alla “casa base” da poco lasciata per la “prima”. Arrivato il pullman non riuscivamo a credere ai nostri occhi. Gran turismo. Enorme.

Va beh saliamo. Con grande soddisfazione manco stesse guidando una astronave venivano aperti sportelloni laterali enormi….. e noi…“figata…..!”Bellissima sensazione appena chiuso l’ultimo. Nessuno poteva farci tornare indietro: si partiva. Ok. Ma ora veniva il bello. Una fila di posti doppi e una laterale di posti singoli. Trasferte dopo trasferte ogni posto avrebbe avuto un senso e una corrispondenza per ogni ruolo e differenti personalità associate ad esso. Ruoli solitari: allenatore, lanciatore, ricevitore, presidente della squadra e terza base. Ruoli socievoli: i primi tre interni (prima base, seconda base, interbase). Ruoli per tutti ma non per molti: gli esterni (dietro molto dietro le tre basi e di solito i migliori in “battuta” quelli che di fronte al lanciatore non tremavano). 

 

Per cui:

- Primi due posti dietro all’autista, le autorità: Presidente (finestrino) e allenatore.

- Primo posto singolo vicino ai due sopra: Lanciatore (avulso da ogni contesto).

- Dietro prima coppia: ricevitore con stereo a palla e chi vinceva la lotta per assicurarsi il posto vicino a lui (di solito l’esterno migliore in battuta in genere il più “scaltro” della squadra e più vicino come “adultità” al catcher).

- Poi chi voleva far un viaggio tranquillo (magari facendosi anche un pisolino sulla sua spalla) si sedeva vicino al prima base dietro ai due “ometti”. Il “prima” aveva personalità tranquilla che trasmetteva molta sicurezza alla squadra: lanciate a me, le prendo tutte e da qui non passa nessuno!.

- Interbase e seconda base in genere assieme, complici ma non amicissimi. L’interbase il migliore difensore della squadra (qualità eccelse in difesa, riflessi, scatto, tecnica sopraffina) il seconda (interbase fallito, un Salieri del baseball) lo sopportava per il bene della squadra.

- Vicino ai due e da solo il terza base. Granitico, dalla sua zolla passavano le palle battute con più violenza. Non aveva paura di niente. Cappellino abbassato “chiamatemi quando siamo arrivati”.

- In fondo esterni vari. I migliori in attacco pensavano poco alla Squadra. Più adatti al gioco individuale ma fondamentali per vincere le partite. Sopportati da tutti a fatica.

 

“Ok siete tutti seduti…rimanete così sino a Nizza…..si parte”. Rolling stones, lou red, pink floyd: il ricevitore li dispensava a piene mani e noi ci sentivamo già “grandi”. Le trasferte: che fantastiche avventure. Ma quella in particolare sarebbe rimasta unica nel suo genere.  Da quella giornata saremo tornati cambiati.  Più grandi che all’andata, che già tanto ci aveva fatto sentire, ormai giocatori “internazionali”. Arrivati a Nizza appena scesi dal pullman davanti a noi il Paradiso Terrestre. Due stupendi campi di atletica, cinque uno accanto all’altro da basket, dieci da tennis, cinque da rugby e due da calcio. Eravamo scesi sulla luna? Noi reduci dagli allenamenti sotterranei arrivati nel complesso sportivo universitario non riuscivamo a crederci.

 

E il “diamante”? Noi l’avevamo e tutto per noi…..  Alla nostra destra un gruppo di giovanotti il doppio di noi in tutto (fisico e età) ci stavano chiamando ai bordi di un campo in terra rossa.

 

“Sanremò?”

 

“Qui, qui, c’est nous…..” rispondemmo sempre più confusi…

 

“Est l’èquipe…? Ou est? Il arrive?”

 

Come l’èquipe…. Siamo noi….

 

Non ci credevano, eravamo lì appena smontati dal pullman con le sacche delle mazze sulle spalle (erano grandi come noi) e già i primi problemi.

 

Noi non trovavamo il “diamante”, loro non vedevano Noi, la “squadra”. Iniziamo bene.

 

Si vedevano pero due forme piantate sulla terra rossa: la “casa base “ e di fronte a poco più di 18 metri (18,39 la distanza regolamentare) la pedana del lanciatore che però non era sopraelevata sul “monte di lancio”.

 

Va beh qualcosa c’è. 

 

Due squadre di generazioni diverse una di fronte all’altra e ognuna con dei dubbi seri su che cosa stava a farci in quel posto, quella mattina a quell’ora. Intanto frotte di uomini normali, fantozzi della domenica, tutti fasciati ginocchia spalle testa e completamente infangati rientravano a far la doccia dopo la partitella della domenica. Anche in questa occasione non credevamo ai nostri occhi. Partitella di calcio…..ma i campi erano deserti…..era Rugby…..fantastico….

 

Nel frattempo un vecchiettino da film in bianco e nero d’autore transalpino aveva frettolosamente tracciato le linee del campo, piantato le basi e disegnato l’area delle due panchine. (jacques Tati?) “ohohhh nice…alors nous allons nous changer….” Gli spogliatoi…. Roba da matti, mai visti così…da organizzarci delle feste. Eravamo entrati a cambiarci mentre i nostri avversari quasi ridevano vedendoci confronto a loro dei piccoli ragazzini ma ne eravamo usciti come tante perfette scatole di minestra di pomodoro.

Le nostre divise Gialle e arancioni risplendevano di luce propria. Il TOMATO al gran completo, irriconoscibili. Noi eravamo pronti. L’arbitro? Nove inning, nove volte in difesa, nove volte all’attacco. Non lo avevamo ancora realizzato ma eravamo preparatissimi. La partita poteva iniziare e il cielo l’aveva capito. Il sole aveva fatto la sua comparsa asciugando il terreno quel che bastava per poter far scorrere la pallina nel modo richiesto per una vera competizione. 

 

Ma “les françaises” si stavano chiedendo: giochiamo? Le nostre perfette casacche sgargianti stirate alla perfezione dalla mamma li convinsero: giochiamo. Iniziavano a dubitare sulla nostra Età. Fisicamente dimostravamo quello che eravamo, adolescenti che stavano sfidando adulti. Ma indossata la divisa (nel baseball parte integrante della filosofia di gioco non era una paio di pantaloni e una maglietta ma un vestito da scena per gente seria e molto fica) e abbassato il capellino delle domande stavano iniziando a farsele.

 

Al primo lancio di apertura della partita il loro sorriso, tra il compiacente e “non facciamogli troppo male” , si trasformo in seria considerazione della situazione. Il nostro lanciatore era la riproposizione di tutto ciò che Marcello era e costruiva lancio dopo lancio agli allenamenti. Marcello non veniva alle partite ma era con noi sempre, bastava guardare i lanciatori preparati da Lui. Fulvio, l’avulso, agli allenamenti aveva come tutti i lanciatori spazi e tempi solo per lui. E in partita era tutto per noi e lo aspettavamo visto che non eravamo mai assieme a lui.

 

Non era tanto la velocità della palla che aveva trasfigurato i cugini d’oltralpe ma il “ciocco” che aveva risuonato per tutto il comprensorio universitario finito il primo lancio nel guantone di Matteo, il ricevitore e capitano della squadra.

 

Nati già uomo noi li seguivamo cercavamo di imitarli ma soprattutto ci fidavamo ciecamente di loro due: Fulvio e Matteo un’unica cosa, i battitori li studiavano, lavoravano, sfinivano e eliminavano con grande soddisfazione di tutti. Les françaises erano appassionati veri di questa “arte” e il cambio di registro non li aveva preoccupati ma solo attratti, veramente colpiti, quasi increduli che finalmente potevano giocare a baseball. In francia probabilmente non avevano mai incontrato veri professionisti del gioco. Ora ce li avevano di fronte. 

 

Si sono impegnati tutta la partita . Noi giocavamo a baseball, loro esprimevano solo la loro differente forza ma man mano che la partita andava avanti e volgeva al termine la loro determinazione dimostrava un grande rispetto e una grande considerazione del nostro “gioco”. Tecnica sopraffina non ancora accompagnata dal dovuto sviluppo fisico. Al sesto inning noi in attacco con un uomo in terza base. Mai avrebbero accettato di subire un punto.

 

Finì 10 – 0 per loro e noi uscimmo dal campo in silenzio. Il nostro allenatore quasi deluso… (Fulvio forse convinto che le sue “strategie” potessero magicamente anche sublimare differenze generazionali..) e i nostri avversari che a un certo punto iniziavano tutti assieme a venirci incontro. 

 

Ci fermammo. Che volevano? Si fermarono di fronte a noi. Noi guardammo oltre temporeggiando. Un lungo bellissimo appagante emozionante applauso si levò verso noi. 

 

Allora i nostri occhi per la prima volta in quella bellissima giornata si incontrarono e ognuno di loro ci prese in braccio sulle spalle e ci portarono in trionfo. Bellissimo. Era iniziato un sogno. 

 

Realtà e fantasia. “Tornate quando volete. Noi per Voi ci saremo sempre.”

 

Dal pullman Lou Red scandiva il nostro ritorno a casa, (doo - doo doo - doo doo- doodoodoo - doo – doodoo….) questa volta non si prendeva l’autostrada. 

 

Tutta aurelia.

 

Ci saremo goduti di più il ricordo di quella storica giornata.

 

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