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Piangere per sport


[di Matteo Simone]

 
 
 

Perché si piange nello sport? Per gioia, quando si ottiene un successo cercato da tempo dopo periodi di intensi allenamenti, sacrifici, rinunce importanti. Per dispiacere, dopo aver subito una sconfitta. Oppure a causa di cattive relazioni con lo staff sportivo di cui si fa parte. E non solo. Per sport si piange a tutte le età. 

 
 

Si inizia da piccoli per diversi motivi. Perché ci si sente obbligati a fare uno sport non scelto "per gioco" ma perché i parenti o gli allenatori ritengono che ci sia la possibilità di diventare un campione. Sin da piccoli bisogna allenarsi, adattarsi, coltivare il sogno di arrivare ai campionati provinciali, regionali, nazionali... Giovani atleti promettenti obbligati, per raggiungere obiettivi eccellenti, ad allenamenti frequenti e durissimi, che obbligano spesso ad una serie di rinunce imprescindibili.

 
 
 

Da grandi si piange perché ci si trova bloccati in qualche percorso sportivo; perché si è sperimentato la gloria, l’emozione da campione... ma poi arriva la frustrazione quando non si è più in grado di restare in vetta (e se non si è investito altro che nello sport ci si sente soli e a volte anche disperati). Lacrime di delusione, lacrime di rabbia. Come quelle di Ronaldo, versate il 5 maggio 2002 dopo la sconfitta della sua Inter contro la Lazio nell'ultima giornata di campionato (che avrebbe potuto assegnare lo scudetto ai nerazzurri). Lacrime ben diverse da quelle di Serena Williams: la ex numero uno del mondo, rientrata dopo quasi un anno di stop, è tornata a giocare sul centrale di Wimbledon lo scorso giugno, dove aveva vinto la finale dell'anno scorso contro Vera Zvonareva e, pur soffrendo un po', si è sbarazzata in tre set della francese Aravane Rezai. Sciolta la tensione, ha pianto per qualche minuto seduta sulla sedia coprendosi il viso con un asciugamano, commentando al termine dell'incontro: «È stato un anno disastroso: non pensavo di riuscire a tornare, non pensavo di poter vincere ancora. Queste sono lacrime di gioia». Si piange anche di felicità, certo: come il grande Alex Schwazer nel momento in cui è entrato al National Stadium di Pechino realizzando di aver vinto l'oro olimpico nella 50 km di marcia; o come Michael Phelps nel corso della premiazione del primo oro olimpico. Lacrime "miste" quelle del tennista italiano Fabio Fognini, che ha pianto dopo aver ottenuto la qualificazione ai quarti del Roland Garros di Parigi: «Negli spogliatoi piangevo un po' per la gioia e un po' per il dolore», ha ammesso sopraffatto dai crampi che lo hanno bloccato inizialmente, rivelatisi poi distrazione al muscolo femorale della gamba sinistra.

 
 

Si piange perché lo sport fa anche male: da piccoli lo sport è gioco, ma da adulti capita che si metta da parte la motivazione intrinseca che ti permette di andare avanti per il piacere del gesto sportivo, delle sensazioni che si sperimentano, per il piacere di competere con gli altri, di combattere con gli altri; in questi casi si può soffrire nel continuare a fare un’attività sportiva solo perché si deve dimostrare agli altri di essere forti, bravi, primi, imbattibili. Quando questo non accade inizia la sofferenza. 

 
 
 
 

Lo sportivo deve ricordare sempre di non essere solo: intanto accanto a sé ha il suo allenatore, figura chiave nel percorso che porta lo sportivo alla gioia o, se le cose vanno male, al dolore del pianto. L'allenatore dovrebbe conoscere le potenzialità dell'atleta, i suoi punti di forza e di debolezza, dovrebbe costruire con lui un progetto di obiettivi raggiungibili, stimolanti, da rivalutare all’occasione, dovrebbe essere in grado di fornire feedback adeguati, spiegare le sedute di allenamento, l’importanza del gesto sportivo, raccontare aneddoti, far parte della storia sportiva dell’atleta, condividere momenti di gioia e sofferenza, di vincite e di sconfitte, essere disposto ad ammettere di aver fatto un errore, di aver preteso, di aver sottovalutato, di non aver considerato...

 
 

Ma non c'è solo il "mister". I familiari contribuiscono al benessere o al malessere dell’atleta: durante il percorso sportivo, egli ha infatti ha necessità di prendere decisioni sul proseguo della sua carriera sportiva, ha bisogno di proiettarsi sul futuro per immaginare quello che potrà essere, diventare, se dovrà abdicare dal mondo sportivo per motivi vari, esempio, infortunio, calo di motivazione, impegni di allenamento diventati gravosi.

 
 

Si piange perché a volte non si è maturi, non si è pronti a subire una sconfitta; a volte nello sport per primeggiare c’è bisogno di grinta, aggressività e può capitare che gli avversari ne approfittino per mettere uno sgambetto, per dare una spinta, per ostacolare qualcuno più forte. In tutto ci deve essere misura: per rimediare ad insuccessi non accettabili in alcun casi ci si viene a trovare in situazioni spiacevoli quali l’assunzione cosciente di sostanze dopanti. In questi casi le motivazioni possono essere molto diverse, seppur sempre sbagliate: ci si sente obbligati, ci si affida a qualcuno di fiducia che cura l’alimentazione e l’integrazione, si cerca di portare all'estremo la prestazione. I rischi, in questi casi, sono altissimi.

 
 

Lo sport è un mondo variegato, può essere interessante, stimolante, un insegnamento di vita, ma va preso con le giuste dosi e con le giuste persone; altrimenti può comportare delusioni, disagi importanti. 

 
 

È fondamentale costituire gruppi di studio, di lavoro, equipe multidisciplinari, composti da atleti, atleti, allenatori, educatori, psicologi, sociologi, medici, antropologi che studino il fenomeno dello sportivo nelle diverse sfaccettature per stabilire dei progetti e modalità di intervento diversi per ciascun soggetto. Adatti cioè a vari contesti: scolastici, sportivi, aziendali, in modo da prevedere delle attività di Psicoeducazione sportiva che portino al benessere, alla prevenzione della salute, ad una corretta alimentazione, al comprendere i fondamenti dell'educazione all’attività fisica, educazione all’etica sportiva. Da non escludere la possibilità di coinvolgere campioni dello sport che possano testimoniare il loro percorso sportivo ed i momenti salienti che hanno attraversato: sia quelli positivi di successo, di soddisfazione, realizzazione, sia quelli di sconforto, di sconfitte, di sofferenza.

 
 

Dott. Matteo SIMONE

 

Psicologo, Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR 

Via Veio 52/B Roma c/o Psico&Art

380-4337230 - 21163@tiscali.it

www.psicologiadellosport.net 

 
 

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