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Materiale Didattico

Lo sport lavorativo


Montaigne loda gli italiani, perché hanno fatto di tristezza sinonimo di malignità
A. Savinio


Lo scrittore Alberto Savinio era fratello minore del pittore Giorgio, in arte De Chirico. Chi più dei letterati e degli artisti, spesso a raccolti a creare in solitudine (necessaria), può avere momenti di sconforto e abbandono? Eppure, anche gli sportivi, e curiosamente più quelli che militano nelle squadre, soffrono come tutti di debolezze, incertezze, attimi prolungati in periodi: dove tutto arriva a raggrumarsi e riunirsi nel male oscuro, nella depressione.



Argomento delicato quant’altri mai. Perché molto spesso (anzi, potremmo dire con sicurezza scientifica: sempre) chi soffre di sbalzi d’umore non ne è consapevole, perché non sa, non può, a volte non vuole, osservarsi. Primo passo per la sua insicurezza di fondo, la sua destabilizzazione. Ma, pure, momento in cui si può ancora essere afferrati e tratti in salvo. Prima che la psicanalisi, o peggio (ma non per il portafogli) le medicine, entrino come un vizio nelle nostre vite.

Savinio citava Montaigne. Questi si era fatto un’idea in realtà un po’ preconcetta degli italiani. Quando venne in Italia, a metà Cinquecento, scrisse un diario di viaggio che sembrerebbe scritto da un postino senza voglia di dire tante cose. Perché? Perché Montaigne, in una parola, in Italia se la spassava. Si godeva, per fare un esempio, i Bagni di Lucca. Girava tranquillo tranquillo per Ferrara. Città amena: la provincia perfetta. Solo il povero Tasso poteva impazzire, pur avendola avuta negli occhi.


Montaigne sapeva bene che la salute e l’igiene mentale passa per prima cosa dal benessere di quella “macchina” che è il corpo. Di qui la sua lode agli italiani: e non perché facessero sport (la vita dura non lasciava tempo, e il passatempo delle élite era collezionare opere d’arte e, al massimo, fare dell’equitazione), ma perché avevano instaurato la perfetta equivalenza di “tristezza” e “cattiveria”. Oggi non diciamo più “quel tristo” per dire “quel furfante”. Ma a inizio Novecento era ancora molto diffuso come modo dire. E abbiamo nonostante tutto la percezione, più che la netta sensazione, che le persone di carattere tristi celino qualcosa.

Enrico Sisti ha scritto su la Repubblica del 3 maggio un pezzo tanto istruttivo che inquietante, inanellando una serie di sportivi di successo vittime del popolare “male oscuro”, meglio noto attualmente come depressione. Tra le vittime illustri, si contano la Pellegrini, Valentino Rossi e un Buffon ventenne.

Per non dire, poi, del mondo anglosassone, dove la tendenza alla depressione da parte di sportivi di successo è ancora più evidente (è il caso di Aaron Lennon, giocatore dell’Everton, del mezzofondista Andy Baddeley e, purtroppo, anche della grande Kelly Holmes, oro ad Atene 2004 negli 800 e nei 1500). I tedeschi si confermano, come al solito, quelli che fanno le cose veramente sul serio: pensiamo alla fine del portiere Robert Enke nel 2010, quando aveva solo 32 anni, o anche solo al ritiro dal campo di Sebastian Dreisler nel 2007, a 27 anni (quasi coetaneo di Buffon – ma su lui torneremo).

Nel suo articolo, Sisti si basava su evidenze mediche per indicare come il problema sia diffuso sia in paesi mediterranei (Spagna) che scandinavi (dove però i tassi di suicidio sono sicuramente più diffusi tra la popolazione, a riprova di quanto diceva il tranquillo Montaigne). E citava psicologi dello sport affermati negli Stati Uniti come Kerry Mummery, oppure il nostro Alberto Cei. Il quale, direttamente intervistato, è andato subito al nocciolo della questione: «I campioni e i professionisti dello sport sono riusciti a trasformare la loro passione di bambini, il piacere di giocare, nel loro lavoro. Ora sono pagati per fare al meglio ciò che prima facevano esclusivamente per piacere personale. Se è vero che per vincere non bisogna pensare a vincere, bisogna di conseguenza abbandonare questa aspettativa e concentrarsi ogni volta sul fornire la migliore prestazione di cui si è capaci».

Naturalmente, ma non vogliamo rubare il mestiere a Cei, questo dà per scontato che i i futuri campioni abbiano sempre e comunque provato piacere nello sport praticato: ma si sa che alcuni casi clamorosi come quello delle sorelle Williams smentisce la teoria. Il punto, a nostro avviso, è un altro: bisognerebbe rivalutare la serietà del gioco, la sua essenza che molto spesso non coincide perfettamente col piacere, nemmeno nei bambini. Lo storico Huizinga ha scritto un libro basilare sull’argomento: Homo ludens. Se ne raccomanda la lettura in italiano, con la premessa di Umberto Eco.

E per tornare all’intervista, che proseguiva così: «In questo difficile lavoro mentale e che prova solo chi ricerca l’eccellenza ci si può perdere, perché l’atleta s’identifica solo con le proprie prestazioni e non più con le altre situazioni della sua vita (famiglia, ambiente sociale, altri interessi).

Questo atteggiamento conduce ad attribuire un valore quasi assoluto ad ogni gara in cui mette in gioco se stesso secondo un principio tutto-o-niente, bravo-incapace, campione-fallito». E glissiamo sul gergo esistenzialista, kierkegaardiano per apprezzare la conclusione: «Quando si forma questa convinzione sarebbe necessario avere al proprio fianco persone con cui condividere queste paure, persone che ascoltano senza giudicare e con cui confrontarsi per trovare la soluzione e uscire da questo stato psicologico, pena lo sviluppo di una condizione psicopatologica che richiederà l’intervento di uno specialista». Che è la spontanea e comprensibile ammissione dell’ imprescindibilità di se stessi: serve una figura professionale apposita per la cura dei depressi.

Ora, non c’è dubbio sull’imprescindibilità di qualcuno che ci senta e ci ascolti: sia questi un familiare, un amore passeggero (o duraturo) o ancora un (presunto) estraneo come lo psicanalista. Diciamo questo perché è evidente che casi come quello di Buffon, smarritosi sui venticinque anni e uscito da difficoltà psicologiche dopo una terapia senza uso di medicinali (punto decisivo che indica il campione), dimostrano come sia necessario distinguere tra il racconto del paziente e il fenomeno dal punto di vista medico.

Lo stesso Cesare Musatti, forse il più grande importatore italiano di Freud, ammise anni fa che ormai lo si poteva considerare come letteratura: discorso dell’uomo sull’uomo, in questo caso. Ma il punto di vista del medico sarà sempre e comunque lo stesso: si può far parlare in apposite sedi chi soffre di solitudine, senso di abbandono, sbalzi di umore, ipocrisia verso se stessi (senza dire di chi è realmente complessato) – ma alla fine l’unica soluzione sarà, se necessario, e tristemente, dare medicine che agiscano sul sistema endocrino. Conosciamo un medico che, quando gli parlammo di una nostra probabile propensione per la psichiatria (maturata su Le braci di Marai), ci rispose che “tanto, alla fine, puoi fare bei discorsi, ma devi dargli lo stesso le medicine”. Triste fine.

Forse – azzardiamo con buona dose di imprecisione – in fondo sono proprio loro, i medici più scettici sulla funzione della psicanalisi nella società attuale, quelli che si ripiegano sul sentimento del paziente e cercano la sua empatia. Per loro vale ancora la frase posta in epigrafe da Balzac al romanzo Il medico di campagna: Alle anime ferite / ombra e silenzio. Non a zittirle in un angolo, ma a lasciarle in tranquillità.

[Andrea Bianchi]

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